Contributo del Partito dei Comunisti Italiani (PdCI)
La delegazione è composta da Fausto SORINI, membro della segreteria e della Direzione nazionale, responsabile del dipartimento esteri, e Maurizio MUSOLINO, membro della Direzione nazionale e coordinatore del dpt esteri.
La crisi economica del sistema capitalistico segna la fine di un lungo ciclo speculativo di accumulazione finanziaria. Una crisi che, però, non colpisce tutti i paesi allo stesso modo. Anzi, la crisi americana, europea e giapponese non impedisce tassi di crescita spettacolari in altre regioni del mondo.
Il dominio unipolare degli Stati Uniti è messo pesantemente in discussione. Un nuovo multipolarismo torna a manifestarsi nelle relazioni internazionali.
Il capitalismo non si è affermato come modello definitivo. L’ideologia del mercato neoliberista, dopo trent’anni di egemonia incontrastata, smette di essere senso comune.
La reazione del capitalismo globale è feroce. La speranza di emancipazione di larghissime moltitudini nel mondo è sequestrata dall’imperialismo; da guerre, povertà, violenze, misure antipopolaridi massacro sociale, come sta accadendo con le politiche di Ue e BCE.
Ma questa reazione non può impedire che in vaste regioni, in enormi Paesi, si sperimentino nuove e inedite forme di sviluppo economico e sociale. E le sinistre, le forze progressiste e i comunisti sono protagonisti della trasformazione in quei Paesi che stanno disegnando i nuovi equilibri del mondo. Un fenomeno enorme ed epocale, che dà un senso alla nostra resistenza politica nazionale e continentale e che ci consegna il compito storico di tenere in vita l’idea della trasformazione e del socialismo.
È il compito dei comunisti nei Paesi dell’Europa a capitalismo avanzato all’alba del terzo millennio. I comunisti e la prospettiva del socialismo non sono fuori dalla storia: sono il movimento reale che si sta prendendo la briga di dimostrare che nulla è immutabile. La storia è già, inevitabilmente, di nuovo in cammino.
CAPITALISMO E SOCIALISMO: DAL XX AL XXI SECOLO
Affrontare con serietà la questione del socialismo nel XXI secolo significa fare i conti rigorosamente con l’esperienza complessiva del socialismo e del movimento comunista del ‘900.
La sconfitta dell’esperienza sovietica e del campo socialista in Europa (che ha avuto percorsi ed esiti differenti da quella cinese, vietnamita o cubana: non si può, semplificando, rubricare tutto sotto la categoria del “crollo” o del “fallimento”) ci obbliga ad analizzarne le cause, a tentare un bilancio complessivo di una vicenda che per decenni è stata centrale nell’esperienza del movimento operaio.
Il revisionismo storico ed una incessante campagna culturale -che avrebbe poco senso se davvero fosse fondata la tesi della morte del comunismo- punta a criminalizzare l’idea stessa della lotta di classe e di ogni ipotesi di trasformazione in senso socialista della società; stravolge l'intera esperienza del movimento comunista presentandola come una sequenza di violenze e di fallimenti.
Di questa storia non dobbiamo rimuovere limiti, errori e pagine buie, ma non possiamo condividere atteggiamenti liquidatori. Avvertiamo l’esigenza di capire meglio ciò che non ha funzionato (perché non ha funzionato) e ciò che infine ha determinato la sconfitta di alcune grandi esperienze storiche.
Il crollo dell’URSS non rappresenta né la fine della storia, né la fine del movimento comunista.
E se la formazione delle società capitalistiche più evolute è il frutto di un lungo processo storico durato secoli, non si vede perché la costruzione compiuta del socialismo su scala mondiale, e segnatamente nei paesi più arretrati (la “rivoluzione contro il Capitale”, per dirla con Gramsci), dovrebbe avvenire in tempi brevi e senza contraddizioni. Anzi, una delle acquisizioni (autocritiche) di fondo che oggi caratterizzano in larga misura la riflessione teorica del movimento comunista in relazione al Novecento è proprio quella di averlo immaginato come il secolo della crisi generale e conclusiva del capitalismo e della vittoria finale del socialismo. Il processo di transizione avanzata al socialismo su scala mondiale si è invece rivelato assai più lungo e tortuoso di quanto non fosse nelle concezioni e previsioni dei fondatori del socialismo scientifico e dei maggiori esponenti del movimento comunista del ‘900. Che sottovalutarono le potenzialità espansive e di auto-regolazione del sistema capitalistico e sopravvalutarono quelle delle prime esperienze di transizione. La costruzione del socialismo e la transizione al comunismo va dunque intesa come un processo storico, ricco di fasi intermedie, di avanzate e arretramenti: la capacità dei comunisti di indicare le soluzioni migliori alle grandi contraddizioni che minacciano il futuro dell’umanità, è oggi la via attraverso cui essi, nei singoli paesi e su scala mondiale, possono riconquistare una funzione dirigente, capace di indicare all’umanità intera nuove e diverse frontiere della liberazione dallo sfruttamento capitalista, che danneggia i viventi e il loro ambiente.
L’esigenza di ripresentare, all’alba del terzo millennio, la questione del socialismo, nasce non dall'utopia, ma dalle contraddizioni vecchie e nuove che il capitalismo in quanto tale è incapace di risolvere.
Non esiste un capitalismo nazionale ed evoluto separabile dalla forma imperialistica che il sistema ha assunto nella sua dimensione ormai planetaria. E se è vero che il sistema capitalistico, sotto la spinta delle lotte dei popoli e grazie alla sfida storica rappresentata dal socialismo e dal movimento operaio del ’900, ha saputo correggere ed attenuare alcune delle sue più acute contraddizioni nei punti alti del suo sviluppo e produrre anche benessere materiale per strati significativi della popolazione (che rappresentano però una piccola minoranza, e sono oggi in larga parte minacciati dalla crisi del sistema, che investe in primo luogo i paesi più sviluppati), esso si è dimostrato incapace di produrre sviluppo, benessere e progresso sociale per la maggioranza della popolazione del pianeta, di preservare l’equilibrio ambientale del pianeta e di produrre pace, disarmo e cooperazione nelle relazioni internazionali.
Occorre, invece, coniugare le immense potenzialità del progresso tecnico-scientifico (che potrebbero già oggi offrire condizioni di vita dignitose a tutta la popolazione del pianeta) con il progresso sociale, la difesa della natura, la pace e l’umanizzazione delle relazioni fra gli esseri umani.
Il capitalismo è un sistema che va superato, proponendo il grande obiettivo rivoluzionario del socialismo: la proprietà e il controllo sociale della produzione e la programmazione e pianificazione dello sviluppo economico, finalizzati al soddisfacimento dei bisogni dell’umanità, la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e a uno sviluppo equilibrato e rispettoso dell’ambiente, non subordinato alle esigenze di profitto di chi possiede i mezzi di produzione. Il rilancio del movimento comunista internazionale fa dunque emergere tre priorità sul piano politico e programmatico: 1) il superamento di questa mondializzazione con un multilateralismo cooperante tra gli Stati fuori da ogni logica neoliberista, imperialista e di guerra; 2) la formazione di poli pubblici produttivi, tecnologici e finanziari, sottoposti a controllo democratico, operanti nel mercato mondiale, con capacità di competizione, contrappeso e condizionamento del capitale multinazionale; 3) la lotta per la pace e il disarmo, lo scioglimento della NATO, la rimozione delle basi militari straniere, la messa al bando delle armi di distruzione di massa, la lotta alla guerra e al sistema di guerra, il ridimensionamento del primato internazionale, anche militare, dell’imperialismo nordamericano ed euro-atlantico; 4) la lotta per misure di giustizia sociale ed il controllo pubblico, nazionale, democratico e sovrano sulle principali scelte di politica economica in ogni Paese.
Stato e mercato tra capitalismo e socialismo
Marx ed Engels ci insegnano che lo Stato è “il compendio ufficiale dell’antagonismo nella società civile”: è lo strumento che si piega al volere della classe dominante e che consente a questa di ottenere anche il potere politico. Lo Stato così “non è che un comitato, che gestisce gli affari comuni della classe borghese nel suo insieme”. Lo Stato è “l’organo del dominio della classe”. Oltre che, uno strumento di mediazione del conflitto di classe, è un luogo in cui il conflitto di classe si svolge e determina i caratteri di questa mediazione.
Marx, inoltre, legava la possibilità del comunismo non soltanto all’esistenza della proprietà sociale, ma anche a un elevatissimo livello di sviluppo delle forze produttive e di automazione del lavoro, in cui l’uomo avrebbe partecipato sempre meno direttamente alla produzione materiale, col che sarebbe venuto meno il fondamento del valore di scambio e quindi si sarebbero esauriti i rapporti di mercato. Ciò presupponeva una fase di transizione, tra capitalismo e comunismo, che sarebbe stata gestita con il controllo dello Stato da parte del proletariato, e durante la quale elementi di mercato e di socializzazione avrebbero convissuto.
È ciò che avvenne nella Russia di Lenin con la NEP. Ed è il medesimo problema che si posero in seguito i comunisti cinesi e vietnamiti, verso la fine degli anni '70. La loro riflessione, com’è ormai evidente, si è spinta molto avanti e, dopo l'ultimo congresso del loro partito, riguarda anche i cubani. Le società d’ispirazione socialista sopravvissute al crollo del sistema sovietico, cercano quindi di trovare le forme adeguate per introdurre elementi di forte dinamizzazione nello sviluppo delle forze produttive.
La crisi del socialismo sovietico e delle democrazie popolari in Europa e la rivitalizzazione di esperienze di transizione come quella cinese o vietnamita (accanto alla problematica della democrazia socialista e delle differenti forme politico-istituzionali in cui essa possa incarnarsi: tema che i comunisti italiani non hanno mai rimosso) evidenziano l'importanza delle questioni strutturali, delle forme di proprietà e di gestione dei processi produttivi. E cioè la grande questione del rapporto tra piano e mercato, tra economia pubblica e privata, con una presenza del settore pubblico che sia però tale (per estensione, qualità ed efficienza) da orientare le scelte strategiche dello sviluppo, senza di che verrebbero meno i presupposti strutturali minimi di una transizione orientata al socialismo.
Si tratta cioè di riconoscere, in questo quadro, il ruolo di strumenti e meccanismi di mercato, sul piano interno e su quello internazionale, per una lunga fase di transizione, sia pure nel contesto di un complessivo orientamento socialista dell’economia, prima del passaggio a forme più avanzate di socializzazione.
Il problema che si ripropone con forza all'attenzione dei comunisti è che la crisi del socialismo reale sorge prima di tutto dalla difficoltà a reggere la competizione economica e tecnologica con i paesi capitalistici più sviluppati. E se il socialismo non vi riesce, soccombe. Quindi le società di ispirazione socialista sopravvissute al crollo del sistema sovietico, devono trovare le forme adeguate per introdurre elementi di forte dinamizzazione nello sviluppo delle forze produttive. Tanto più in paesi ancora in via di sviluppo, dove la costruzione del socialismo comporta un lungo processo di transizione prima di pervenire ad una società socialista sviluppata che possa credibilmente proporsi la realizzazione compiuta delle finalità di ciò che da Marx in poi chiamiamo "comunismo".
Verso nuovi equilibri mondiali e continentali
A venti anni dalla fine dell'Urss, quando gli ideologi della borghesia parlarono di “fine della storia”, la storia non solo non è finita, ma si è rimessa a correre.
E' venuta affermandosi una dinamica mondiale che prefigura nei prossimi decenni grandi sconvolgimenti degli equilibri planetari e l'emergere nell'economia e nella politica mondiale di uno schieramento articolato, non subalterno alla triade imperialista USA-UE-Giappone e imperniato sui BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e sui paesi non allineati con essi convergenti. Secondo gli studi delle maggiori banche d’investimento, il Pil di questi Paesi è destinato a superare quello di Usa, Ue e Giappone; e la Cina supererà da sola l’economia degli Stati Uniti. Il ragionamento è schematico, per rendere chiare le dinamiche in campo. Il quadro è molto più dialettico perché le contraddizioni intercapitalistiche tra USA, UE e Giappone sono fortissime (lo sono all’interno della stessa Europa) e i Paesi del BRICS sono diversi tra loro e non assimilabili in un blocco omogeneo privo di contraddizioni. Questo non toglie nulla, anzi aggiunge elementi alla dinamicità della situazione.
Nella regione euro-asiatica, dove vive la metà della popolazione mondiale e dove va spostandosi il baricentro economico del pianeta, la cooperazione bilaterale tra Russia e Cina – una cooperazione strategica che si sviluppa sul terreno non solo economico, ma anche politico e militare – sta modificando in profondità gli equilibri mondiali, e delinea l’emergere di un nuovo contrappeso mondiale nei confronti del polo euro-atlantico e dei paesi della cosiddetta triade imperialista, che si manifesta anche istituzionalmente nella Organizzazione per la Cooperazione di Shangai. Anche l'ascesa del ruolo internazionale e del peso economico dell'India contribuisce a rafforzare una dimensione multilaterale delle relazioni internazionali.
Il continente africano ha visto un protagonismo crescente del governo del Sudafrica, caratterizzato negli ultimi anni da una importante svolta a sinistra (maturata all'interno dell'Anc) ed un ruolo sempre più fondamentale dei comunisti, del movimento operaio e del sindacato di classe, che hanno avuto un’influenza positiva su tutta la regione. Date le immense riserve naturali ed energetiche di cui dispone il sottosuolo africano, è cresciuta l'inquietudine degli Usa e dell'Ue di fronte all’espansione commerciale e finanziaria della Cina nel continente e il consolidarsi di una collaborazione per lo sviluppo che ha assunto ormai natura e dimensioni strategiche e non di spoliazione.
Una rivoluzione degli equilibri globali: le guerre mondiali del ‘900 sono scoppiate per molto meno.
Una modifica dei rapporti di forza a favore delle forze rivoluzionarie e progressiste si è determinata complessivamente anche in America Latina (situazione ben nota a tutti in questa sede), mentre più complessa e contraddittoria si presenta la situazione in Medio Oriente.
Le guerre imperialiste come risposta al declino degli Usa e dell'Ue
Gli esiti inattesi (per i capitalisti) della crisi, invece di piegare al volere dei debitori la Cina (il principale dei creditori), hanno spezzato il meccanismo di espropriazione con il quale gli Stati Uniti sono riusciti a farsi pagare, dal ‘68 in poi, il costo dell’Impero e un livello di vita superiore alle loro effettive capacità.
Possiamo trovare nella fase presente del capitalismo tutti i tratti dell’accezione leninista dell’imperialismo (concentrazione del capitale, oligarchia finanziaria, esportazione del capitale, ripartizione del mondo in gruppi monopolistici, spartizione del globo tra le potenze). Tale situazione genera i conflitti per mantenere (o guadagnare) le posizioni acquisite dalle potenze imperialiste.
È ciò che avviene oggi: la guerra è sempre l’opzione preferita dagli Usa per tentare di uscire dalle crisi. La portata di questa crisi, però, segna l’ipotesi del declino degli Stati Uniti che, di fronte alle difficoltà che ne minacciano il primato mondiale, tentano come sempre di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono ancora i più forti.
Da qui nascono tutte le guerre e le aggressioni militari che hanno caratterizzato la politica mondiale dell'ultimo ventennio, e che hanno visto come responsabili gli Stati Uniti e, a geometria variabile, le principale potenze capitalistiche dell'Ue e Israele: Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libano, Palestina, Congo, Sudan, Libia. Interventi militari che nel loro insieme hanno provocato più di 6 milioni di morti civili, e che sono sempre stati giustificati con l’ipocrisia umanitaria della difesa dei diritti dell'uomo.
Tutte queste guerre hanno avuto fondamentalmente due denominatori comuni: assicurare agli Stati Uniti e ai loro alleati il controllo su aree economiche e geopolitiche decisive per l'approvvigionamento e il trasporto delle principali fonti di energia, ma anche l’installazione di postazioni strategiche essenziali a contenere l'influenza internazionale di Russia e Cina.
Il passaggio da Bush a Obama non configura un mutamento di strategia rispetto al perseguimento di questi due obiettivi essenziali: evidenzia semmai la scelta di una diversa tattica in relazione alle forze da coinvolgere e agli strumenti da utilizzare. Mentre Bush ha perseguito quella linea con l’unipolarismo della guerra preventiva (approfondendo la frattura in seno all’Europa), la linea Obama-Clinton cerca di coinvolgere maggiormente l'Ue, l’Onu e la Nato (multipolarismo atlantico). Non rinuncia all'intervento militare diretto (Afghanistan, Libia), ma tenta un recupero dell'influenza facendo leva, con maggiore flessibilità, su strumenti economici, politici e di intelligence, volti a destabilizzare anche dall'interno Paesi e regimi antagonisti (come ad esempio nei casi delle “rivoluzioni colorate” nell’Europa dell’Est, o per quanto riguarda Siria, Iran, Sudan, Bielorussia, Venezuela, Libia... mentre continua la pressione su Cuba). O, anche, con il tentativo di rafforzare il controllo sugli equilibri interni di Paesi considerati più esposti alla loro ingerenza, favorendovi a tal fine anche processi di modernizzazione “controllata” (come nel caso dell'Egitto).
La Nato continua ad essere il principale strumento di dominio politico-militare globale da parte delle maggiori potenze imperialistiche, sotto la leadership degli Stati Uniti. E il principale ostacolo ad una effettiva sovranità dei popoli e delle nazioni d'Europa.
La lotta per la pace e il disarmo, per l’autonomia e la sovranità dei popoli, si conferma come essenziale, quindi, non solo per la salvaguardia di diritti vitali per il genere umano, ma anche ai fini della lotta per il socialismo. E sul terreno della competizione pacifica e del multipolarismo, si aprono spazi maggiori anche per l’affermazione di forze progressive, popoli e Paesi che nelle diverse regioni del mondo perseguono modelli di sviluppo e di società di tipo socialista o comunque alternativi al neoliberismo.
E nostro compito batterci per la pace e per il disarmo, per lo scioglimento della Nato (e comunque per l’uscita dell’Italia dalla stessa); per il ritiro dei nostri soldati dai teatri bellici e per il pieno rispetto dell’art. 11 della nostra Costituzione e del principio di diritto internazionale cogente, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, del divieto dell’uso o della minaccia dell’uso della forza.
L’ascesa della Cina
Se consideriamo i successi della Cina e del PCC, si può ancora dire che il comunismo è stato sconfitto dalla storia?
Non condividiamo l'idea che la poderosa ascesa della Cina sia dovuta ad una presunta conversione al neoliberismo.
Consideriamo la Cina un paese ad orientamento socialista, con una economia mista in cui convivono piano e mercato, e con un ruolo centrale del pubblico nelle scelte strategiche dello sviluppo.
Il Partito Comunista Cinese, che compie nel 2011 il suo 90° anniversario, governa un’economia nella quale i vertici del comando, la terra, le banche e le industrie maggiori sono possedute e controllate dallo Stato. Ciò facilita la guida della macroeconomia ed ha consentito alla Cina di evitare il collasso durante la grande recessione internazionale del 2007-2009.
L’economia pianificata della Cina non risponde alle stesse leggi dei Paesi capitalistici. Malgrado i bassi margini di profitto delle aziende di Stato, queste consentono di effettuare massicci investimenti a medio-lungo termine nell’interesse del Paese.
I dati del miracolo economico cinese sono noti.
Tra il 1978 e il 2007 la povertà in Cina è stata sradicata, passando dal 30,7% al 1,6%. Ciò significa che negli anni ’70 nelle campagne c’erano più di 200 milioni di persone sotto la soglia della povertà.
Oggi in Cina le imprese di Stato impiegano il doppio degli operai che lavorano nelle fabbriche private. Due terzi dell'economia, e segnatamente i settori strategici, sono pubblici o sotto il controllo pubblico. L’economia è pianificata (è in vigore il XII piano quinquennale). Il sistema bancario e finanziario cinese è blindato, la moneta non è convertibile e i flussi di capitale sono controllati. La Cina non è indebitata, anzi ha enormi riserve monetarie denominate perlopiù in dollari.
Per evitare la recessione dovuta alla crisi economica, la Cina ha investito 4.000 milioni di renminbi (circa 430 milioni di €) in infrastrutture e ha iniettato nelle banche commerciali 10.000 milioni di renminbi (circa 1,1 miliardi di €) perché li dessero in prestito alle aziende per sostenere la produzione.
La Cina non è solo la fabbrica del mondo, è il Paese che più investe in innovazione, ricerca scientifica e tecnologica ed è quello che ha compiuto i più notevoli passi avanti nella riduzione delle emissioni inquinanti.
Consapevoli delle enormi contraddizioni e degli squilibri che lo sviluppo accelerato dell'economia cinese ha prodotto negli ultimi decenni (e che ha però garantito l'autonomia e il ruolo internazionale del Paese nella fase drammatica del crollo del sistema sovietico), i comunisti cinesi sono oggi impegnati nella riduzione delle enormi disuguaglianze che affliggono il paese, puntando sulla creazione di un solido sistema di stato sociale e su politiche di aumento del reddito e dei diritti per i lavoratori.
Ciò nonostante i vertici del PCC affermano costantemente che la Cina è ancora un paese in via di sviluppo, e che esso si trova n una fase primordiale di un lungo processo di costruzione del socialismo, evidenziando le profonde contraddizioni che l’attraversano, che necessitano di una grande opera di armonizzazione, crescita e progresso. Sarà importante verificare se a tali sforzi corrisponderà una maggiore forza dei lavoratori (anche in seguito alle lotte che la classe operaia sta conducendo contro le pessime condizioni del lavoro nelle grandi corporations multinazionali), un fatto determinante per lo sviluppo del socialismo.
La nuova potenza economica raggiunta dalla Cina si traduce, ovviamente, nel raggiungimento del ruolo di grande potenza mondiale che sta cambiando gli equilibri del pianeta. I fatti e la storia della Cina, oltre che la politica espressa dal Partito Comunista Cinese, ci dicono che tutto ciò non ha determinato la nascita di un nuovo imperialismo (si veda ad esempio l’inedito ruolo di sviluppo che la Cina sta giocando in Africa). Comunque, la Cina ha già provocato la nascita di un mondo multipolare, insieme agli altri Paesi del Brics.
Per questi motivi la Cina non ha i favori della propaganda occidentale. I progressi costanti sul terreno dei diritti non sono mai evidenziati, anzi è proprio su questo terreno che Stati Uniti ed Europa combattono una poderosa battaglia contro la Cina. È clamorosa, ad esempio, la cortina omertosa che è scesa sulla notizia della moratoria totale sulla pena di morte decisa dal governo cinese. Così come il silenzio sui processi di nuove forme di democrazia partecipata e deliberativa, che si sta allargando nei livelli delle amministrazioni locali cinesi.
Infine va considerato che vi sono settori dell'imperialismo mondiale che non solo praticano una nuova guerra fredda contro la Cina, ma si preparano anche a quella calda.
Mettiamo questa nostra riflessione a disposizione, senza dogmi, con la volontà di aprire un confronto.
Non spetta a noi, infatti, dare attestati di comunismo alla Cina, né dire ai cinesi come dovrebbero realizzare il socialismo in un Paese da un miliardo e trecento milioni di persone, né attribuire alla Cina e al suo Partito Comunista il ruolo di modello per il mondo, peraltro non replicabile nell’Europa e nell’occidente del capitalismo avanzato.
Non esistono Stati o partiti guida né sono oggi pensabili forme di organizzazione come quelle che in altri contesti storici caratterizzarono l'esperienza del XX secolo. Spetta a noi, invece, riconoscere che la Cina sta dando un contributo decisivo a rimettere in moto la dialettica della storia contro chi la voleva finita.
Europa e Unione Europea
L’Unione Europea realizza uno dei sogni dei capitalisti: sottrarre il livello di una serie di decisioni economiche alla possibilità del conflitto, e, quindi, all’immediata riconoscibilità di un diretto interlocutore dei movimenti operai nazionali introducendo un agente esterno in grado di forzare le scelte economiche dei singoli paesi a favore delle classi dominanti.
È ovvio che una tale dialettica determini il sequestro della democrazia dei popoli, espropriandoli della loro sovranità e mettendo al riparo i luoghi della decisione da ogni possibile conflitto di classe.
È in Europa che la crisi dei debiti sovrani sta esplodendo con effetti devastanti.
L’Ue pensa di rispondere a questa situazione con misure che impongono ai Paesi ad alto debito manovre di rientro marcatamente di classe, che segnano il definitivo smantellamento del welfare europeo, una compressione dei salari, una nuova ondata di privatizzazioni e di tagli della spesa pubblica, che provocano
nuove diseguaglianze ed un'ulteriore depressione della crescita economica.
Un'altra misura che l’Ue ha adottato è il Meccanismo Europeo di Stabilità, una specie di Fondo monetario europeo, con una dotazione volta a prestare soldi ai Paesi in crisi debitoria. Che, ovviamente, per accedervi dovranno: abolire la scala mobile (che è ancora in vigore in diversi Stati europei), alzare l’età pensionistica, e accettare un meccanismo automatico di sanzioni (non previsto dal Trattato di Maastricht) per chi sfora i parametri. Una misura iniqua e inutile al tempo stesso. Perché i prestiti, per definizione, servono soltanto a risolvere le crisi di liquidità e non quelle di solvibilità. Inoltre prestare soldi a chi è già indebitato, produce soltanto un peggioramento della situazione.
Un’intransigente opposizione ai tagli della spesa pubblica e alle misure antipopolari che si prospettano è obbligata e risponde alla logica riassunta con lo slogan “noi la crisi non la paghiamo”.
È nostro compito contrapporre all’UE dei capitali, che sta implodendo sotto i colpi della crisi e delle proprie interne contraddizioni, una diversa idea di Europa, che può essere costruita a partire dallo sviluppo delle lotte dei popoli per difendere lo Stato sociale e allargare la sfera di ciò che è pubblico, introducendo forme di orientamento e di controllo sociale della produzione.
Occorre poi lanciare una grande battaglia per la democrazia in Europa: per restituire ai popoli la sovranità sui poteri e le decisioni che in Europa sfuggono a ogni controllo democratico. A partire dalla BCE che, governata dalle banche nazionali (quasi tutte controllate dai privati) sotto l’egida della Germania e trincerandosi dietro il falso dogma dell’indipendenza delle banche centrali, impone politiche monetarie ed economiche che ricadono sempre sulle spalle dei lavoratori svincolandosi da ogni controllo popolare. Un’Europa dei poteri forti assolutamente non democratica.
Il nostro compito è, di rendere manifesta questa natura di classe e neo-imperialista dell’Unione Europea, sia nei confronti dei Paesi e dei popoli più deboli dell’Unione, sia verso i Paesi in via di sviluppo.
Occorre condurre una battaglia nazionale (e cercare di estenderla al piano europeo insieme alle forze comuniste e progressive) contro le politiche antipopolari dei tagli, della distruzione del welfare e della compressione di salari, stipendi e pensioni.
Va contrastata la partecipazione subalterna dell'Ue al progetto imperialista Usa, nella speranza di poter conquistare o controllare uno spazio coloniale o neo-coloniale proprio. E la conseguente presenza (e pericolosità) delle basi militari e nucleari Usa e Nato, sotto il comando statunitense, che rappresentano una pesante ipoteca sulla sovranità degli Stati che le ospitano e sull'autonomia dell'Europa.
La priorità, però, è di promuovere lotte nazionali in ciascuno degli Stati europei: perché è solo cambiando le politiche e i caratteri dei singoli Paesi che si potrà costruire un’altra Europa.
Va elaborata una critica strutturale di questa UE.Tutti a sinistra condividono l’esigenza di lottare per conquiste parziali nel quadro attuale della UE (visono cioè le basi per un programma minimo condiviso). L’UE esiste e non ci si può estraniare dalladialettica politica e programmatica che vi si svolge in nome di un’Europa futura, tutta da costruire.Il punto è che non possiamo pensare diperseguire compiutamente tali obiettivi entro il quadro e le compatibilità della UE, e all'interno della Nato. Occorre una radicale discontinuità con il processo storico di costruzione europea. La lottacontro l’attuale configurazione della UE deve essere condotta sapendoconiugare una attenta criticaall'impianto strategico e strutturaledi questo progettocon battaglie parziali vadano in direzione di una fuoriuscita dall'attualequadro e della necessità di unanuova architettura alternativa all'attuale. La lotta contro la politica anti-sociale dell'UE può avere un forte consenso popolare e non può essere lasciata alle forze della destra populista, che ne distorce il significato in senso nazionalista.
Va sottolineato il ruolo peculiare che un'Italia non subalterna a logiche neo-coloniali, collocata nel cuore della regione sud dell'Europa, potrebbe svolgere nella costruzione di relazioni amichevoli e di cooperazione progressiva con i paesi del Mediterraneo, del Nord Africa, del Medio Oriente, e più in generale coi BRICS.
Contribuire alla ricostruzione del movimento comunista e rivoluzionario nel XXI secolo
Fin dalle sue origini il movimento comunista ha percepito se stesso come un’entità che non poteva esistere senza una sua proiezione internazionale. Tanto più oggi, nell’epoca della “mondializzazione”, nessun movimento comunista e rivoluzionario, nessun processo di riorganizzazione dei partiti nazionali, è pensabile durevolmente e credibilmente senza una sua dimensione internazionale.
Sul piano strettamente organizzativo, sono oggi un centinaio i partiti comunisti nel mondo – grandi e piccoli – con un centinaio di milioni di militanti circa, di cui oltre 80 milioni nel solo Partito comunista cinese (a cui vanno aggiunti oltre cento milioni di militanti che fanno parte delle organizzazioni giovanili comuniste o affiliate a livello internazionale). Tra questi partiti, i più importanti, incidono in modo significativo – al potere, al governo o all’opposizione - sulla realtà di Paesi che abbracciano più della metà della popolazione del pianeta, alcuni dei quali (Cina, India, Russia, Brasile, Sudafrica) stanno imponendosi come Paesi chiave degli equilibri mondiali del XXI secolo.
L’esperienza di questo ventennio smentisce la tesi per cui la fine dell’Urss e del campo socialista in Europa segni la fine del movimento comunista e il declino irreversibile dei partiti comunisti.
Il caso italiano, in questo contesto (crisi, crollo e divisioni del movimento comunista), rappresenta nel contesto europeo attuale un caso particolare, non la regola; e dipende principalmente da fattori soggettivi connessi ai gruppi dirigenti degli ultimi tre decenni, forse anche più.
Grazie all'iniziativa importante e di portata strategica del KKE, nel 1998 cominciano gli incontri internazionali dei “Partiti comunisti e operai”. Tali incontri si tengono annualmente, ogni volta su un tema diverso: di ordine politico, sindacale, di analisi economica, di dibattito teorico, di scambio di opinioni su iniziative ed esperienze. Grazie all’impegno congiunto di alcuni partiti comunisti e rivoluzionari si è prodotta una rivitalizzazione di alcuni organismi internazionali di mobilitazione antimperialista, come ad esempio la Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, che ha dimostrato la sua vitalità negli ultimi due Festival mondiali (nel 2005 in Venezuela e nel 2010 in Sudafrica).
In America Latina il Foro di Sao Paolo ha riunito le forze progressiste, di sinistra e comuniste ed ha dato un contributo importante ai processi rivoluzionari in tanti Paesi del continente.
È nel contesto globale di questi tentativi di riorganizzazione del movimento comunista che va valutata la scelta di alcune forze di dare vita al Partito della Sinistra Europea-SE, che si è fin dall’inizio configurata come un fattore di divisione del movimento comunista, poiché nella definizione del suo profilo identitario si sono deliberatamente introdotte formulazioni di natura ideologica (in relazione alla storia del movimento comunista) e programmatica (in relazione al giudizio sull’Unione europea), ben sapendo che sarebbero state inaccettabili per importanti partiti comunisti europei.
Resta invece condivisibile l’esigenza di costruire un coordinamento di tutte le forze comuniste con altre forze anticapitaliste, antimperialiste e di sinistra su scala continentale. E questo rimane a tutt'oggi il nostro progetto, volto alla costruzione di un soggetto che tenga insieme tutte queste forze e che sia in grado di assumere una dimensione tale da poter essere una sorta di Forum di San Paolo paneuropeo (il che non esclude, ma è complementare a forme autonome di incontro e di coordinamento peculiare dei comunisti europei).
Nel contesto europeo l'esperienza degli ultimi anni ha demolito la tesi per cui -in questa parte del mondo- una forza comunista, rivoluzionaria, che respinga ogni suggestione socialdemocratizzante e adattativa, sia inevitabilmente destinata al declino e alla marginalità. Si dimostra vero il contrario, a condizione ovviamente che il profilo politico-ideologico di un partito si accompagni sempre alla sua capacità di radicamento sociale, innanzitutto nel mondo del lavoro e tra i giovani.
È ciò che dimostrano – pur nella loro diversità - i risultati dell’AKEL di Cipro, del KKE greco e del PCP portoghese, che proprio in questi ultimi anni raggiungono anche sul piano elettorale alcuni dei migliori risultati di tutta la loro storia, grazie soprattutto al loro radicamento nella società: AKEL è il primo partito di Cipro ed esprime il Presidente della Repubblica, mentre gli altri due partiti conseguono risultati attorno all'8-10% e sono forza dirigente di importanti lotte e organizzazioni sindacali.
In Italia siamo impegnati oggi in un processo di ricostruzione unitaria del partito comunista, un partito che – dopo le debolezze, le sconfitte e le frammentazioni degli ultimi decenni - riunisca i comunisti italiani su basi leniniste, internazionaliste e di classe, in un rapporto costruttivo, autonomo e solidale con l'insieme del movimento comunista internazionale. A questo tema abbiamo dedicato il titolo e il significato fondamentale del nostro ultimo congresso (Ricostruire il partito comunista), svoltosi alla fine di ottobre 2011.
Il nostro contributo a questo incontro internazionale è il frutto della elaborazione del nostro ultimo congresso.
Crediamo che, al punto in cui siamo e data la profondità della crisi del sistema capitalistico e imperialistico e dei pericoli di guerra che essa porta con sé, il problema vero dei nostri incontri internazionali non è solo quello – pur essenziale - di rafforzare il profilo politico e ideologico del movimento comunista su scala mondiale, ma anche e soprattutto di essere in grado come comunisti – in un quadro di vaste alleanze e convergenze sociali e politiche democratiche e progressive – di essere promotori di grandi movimenti di lotta, con basi di massa e non meramente testimoniali, a partire dai rispettivi contesti nazionali e internazionalmente coordinati, capaci di incidere sulla realtà e di modificare i rapporti di forza. Capaci di far crescere nei popoli la consapevolezza che solo il socialismo, la conquista di posizioni che consentano di avanzare verso il socialismo, l'indebolimento delle posizioni dell'imperialismo nel mondo, possono far avanzare i popoli e l'umanità intera verso soluzioni compiute e durevoli alle contraddizioni del capitalismo della nostra epoca.
Governo MONTI: la borghesia scende in campo direttamente coi suoi tecnocrati ed esautora i suoi stessi rappresentanti politici
Le richieste iper-liberiste, antioperaie e antisociali dell'EU e della Banca centrale europea producono ovunque – e in special modo in paesi deboli ed in crisi come l’Italia - uno “stato di eccezione” tendente a sospendere le democrazie, ad invalidare le Costituzioni, ad esautorare i Parlamenti e gli Stati, ad annullare la loro autonomia e sovranità.
I popoli si ritrovano d’improvviso ad essere governati da nuovi ed esterni poteri, e la BCE si presenta sempre più, in questa fase, come una sorta di monarchia assoluta – con una regina tedesca - che estende il proprio dominio sull’intera popolazione europea. Lo “stato di eccezione” segna drammaticamente di sé il nostro Paese ed il governo Monti rappresenta lo sviluppo coerente e il compimento di questo processo.
La fine del governo Berlusconi non è avvenuta sulla base di un voto parlamentare, come pure dovrebbe essere costituzionalmente. Bensì è avvenuto per decisione del Presidente della Repubblica che, fattosi interprete degli interessi strategici della grande borghesia italiana ed europea, in piena e concordata sintonia coi poteri forti nazionali e sovranazionali (EU, Nato, presidenza USA, Vaticano, Confindustria...), ha di fatto esautorato il Parlamento, il governo uscente e i partiti politici, di centro-destra e di centro-sinistra -considerati inadeguati a rappresentare in questa fase di grave crisi il comitato d'affari lucido e coerente della borghesia – ed ha affidato tale compito ad un ex commissario UE, Monti, chiedendogli di formare un governo di tecnocrati al servizio della politica determinata dai gruppi dominanti della EU, e imponendo di fatto ai due schieramenti di CD e CS di sostenerlo.
Non è il caso di entrare qui nel dettaglio delle misure economiche e sociali annunciate nei giorni scorsi dal governo Monti, che configurano una sorta di soluzione alla greca in salsa italiana; una linea di massacro sociale che fondamentalmente scarica sui ceti popolari, sui pensionati, sui lavoratori dipendenti, sulla parte più povera e sfruttata del paese i costi della crisi del sistema; e chiede invece ai ceti sociali medio-alti sacrifici proporzionalmente irrisori rispetto a quelli che vengono chiesti ai ceti popolari.
Si impone quindi una risposta popolare di lotta, che veda protagonisti e promotori i comunisti, le forze di sinistra e progressive, le componenti più avanzate dei sindacati, e che sappia sostenere gli interessi della grande maggioranza del nostro popolo e mobilitarla.
Mentre si manifestano gli orientamenti antipopolari del governo Monti in materia economico-sociale, in linea con la lettera inviata dalla BCE al governo italiano lo scorso 5 agosto, assai netti, gravi e inequivocabili si confermano gli orientamenti in politica estera espressi dai ministeri di Difesa ed Esteri.
Il neo-ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, tra gli esponenti di maggior rilievo del quartier generale della NATO, che ha partecipato attivamente all'operazione militare in Libia, ha dichiarato di voler dare continuità, rafforzandoli, ai legami di fedeltà alla NATO, e di allineare senza tentennamenti il nostro paese a quel “nuovo concetto strategico” dell'alleanza militare occidentale che estende il raggio d'azione di questo blocco a tutti gli angoli del pianeta, intensificando una pratica di politiche di aggressione e violazione della sovranità e dell'autodeterminazione di altri Paesi. E confermando tutti gli impegni che vincolano l'Italia alla partecipazione alle missioni militari in corso (a partire da Libia e Afghanistan).
In materia di spese militari si prospetta a consuntivo 2011 un aumento di 3 miliardi di euro rispetto al 2010 (dovute per lo più alla partecipazione italiana alle guerre di aggressione in Afghanistan e Libia).
Assai grave e inquietante in materia appare la presa di posizione dell'attuale ministro degli Esteri, Giulio Terzi, espressa nei giorni scorsi a Istanbul in un incontro con il suo omologo turco Davudoglu, in merito agli sviluppi della situazione in Siria.
In Siria è in atto un tentativo di golpe armato contro il regime di Assad con modalità pressoché identiche alla Libia; mentre Israele, dotata di armi nucleari, non nasconde la sua linea che intensifica i reparativi di un possibile un attacco militare contro l’Iran. In tale contesto il neo-ministro degli esteri italiano ha rilasciato una dichiarazione improntata ad un rigido allineamento alle posizioni più oltranziste dello schieramento atlantista, che sta premendo sulla “comunità internazionale” per ripetere in Siria lo stesso identico copione che ha portato allo scatenamento della guerra della coalizione occidentale contro la Libia.
Nel ribadire il proprio impegno a sostenere completamente le “forze democratiche” della Siria e l' “opposizione organizzata” - significativamente nel giorno stesso in cui la Turchia, spalleggiata dalle monarchie del Golfo, lancia il suo “ultimatum” alla Siria - Terzi richiama alla “responsabilità di proteggere tutte le popolazioni inermi”, con una formula pressochè identica a quella che ha dato il via libera allo scatenamento dell'aggressione alla Libia. Ed esprime il suo “disappunto” verso quei paesi (Russia e Cina in primis) che in sede ONU con le loro “resistenze” hanno impedito l'attuazione delle delibere presentate dalle potenze occidentali.
Le prime mosse dei due ministri sembrano dunque dare conferma alle indiscrezioni riferite dal Sole 24 Ore, secondo cui “l'incarico all'ammiraglio Di Paola alla Difesa, così come quello dell'ambasciatore Terzi alla Farnesina, è stato caldeggiato da Washington grazie agli stretti rapporti che intercorrono tra il Quirinale e la Casa Bianca, consolidatisi durante il conflitto libico e confermati anche nei giorni scorsi da colloqui telefonici tra Napolitano e Obama”. E indicano un inquietante avvicinamento dell'attuale governo italiano alle posizioni più oltranziste presenti nella NATO in materia di relazioni con la Siria.
E' grave che fino ad ora nessuna voce critica in Parlamento si sia levata nell'ambito dello schieramento pur eterogeneo che sostiene l'attuale governo, rispetto a posizioni che configurano la possibilità di un coinvolgimento dell'Italia in nuove avventure militari nell'esplosivo scacchiere mediorientale.
Alcune proposte concrete per il nostro lavoro comune
Che cosa dobbiamo fare in questa situazione, nel peculiare contesto nazionale ed europeo?
Qual'è il contributo anche operativo che può venire dal nostro incontro internazionale?
Riassumeremmo così quelle che a noi sembrano le azioni prioritarie, nel contesto europeo:
-dare impulso e sviluppo alle lotte nazionali contro linea UE di massacro sociale;
-legare queste lotte al tema della lotta contro la guerra, l'imperialismo, la NATO, introducendo nelle piattaforme di lotta, ad esempio, il tema di una riduzione del debito pubblico a partire da una riduzione delle spese militari e segnatamente, in alcuni paesi come l'Italia, delle spese per le missioni militari di guerra all'estero. Il movimento della pace oggi è in grave crisi in Europa, ed esso può rinascere in questa fase solo se si determina un intreccio tra lotta contro la guerra e lotte sulle questioni sociali più sentite dalle grandi masse;
-coordinare lotte e iniziative su scala regionale, determinando una sorta di contagio delle situazioni più avanzate rispetto a quelle più arretrate: ad esempio invitando a partecipare e a parlare rappresentanti politici o sindacali del movimento di lotta di altri paesi alle rispettive mobilitazioni nazionali.